giovedì 15 luglio 2010

Reggio 1970: la destra popolare che capiva il sud


FONTE: Secolo d'Italia

di Marco Iacona

Quarant’anni fa – il 14 luglio 1970 – iniziava la rivolta di Reggio Calabria. La protesta popolare più nota del nostro dopoguerra con cinque vittime, centinaia di feriti e danni ingentissimi. La durata dei fatti, quelli di una certa importanza, fu di sette mesi (dal luglio 1970 al febbraio 1971) e la causa che vi diede luogo di rilievo storico: la decisione presa dall’alto di collocare il capoluogo di regione del neocostituito ente regione Calabria non a Reggio Calabria ma a Catanzaro. In molti ricorderanno che la destra del tempo – in primo luogo col suo sindacato di riferimento la Cisnal – s’impegnò a sostenere le ragioni dei cittadini di Reggio. Uno dei leader della rivolta fu infatti quel Francesco (o Ciccio) Franco, morto nel 1991 e ricordato da un busto sul lungomare della città dello Stretto, che per l’occasione si appropriò dello storico motto “Boia chi molla”.
La vera origine di una locuzione divenuta strafamosa grazie anche a Franco (ma di derivazione risorgimentale o forse dannunziana) è peraltro incerta almeno fino ai ’40, gli anni del tenente carrista Roberto Mieville, prigioniero nel Fascist’s Criminal Camp di Hereford in Texas, poi dirigente giovanile missino e fra i primi parlamentari del Msi. Fu in quel periodo infatti (Mieville morì nel 1955 per un incidente stradale) che la frase entrò a far parte degli slogan ricorrenti nel Msi, come un invito piuttosto virile a tenere duro per superare le avversità. Da allora attraverso il crinale degli anni ’60 e ’70, fino agli anni ’90 e oltre, “Boia chi molla!” (col punto esclamativo) è diventato uno dei motti identificativi della destra nelle sue derivazioni movimentiste. La rivolta dei “boia chi molla” di Reggio ha aperto così in tutti i sensi gli anni ’70. Il periodo nel quale le istituzioni non riuscirono più a soddisfare le attese provenienti dal “basso”, quelle medesime istituzioni che negli anni seguenti, com’è noto, finiranno per vacillare. Era ovvio naturalmente che senza l’attribuzione del “pennacchio” (cioè del capoluogo di regione della Calabria) i reggini dopo esser stati solo sfiorati dal boom economico fossero tagliati fuori dai vantaggi che la “promozione” a capoluogo di regione poteva apportare loro. E cioè: posti di lavoro certi e un indotto tutt’altro che trascurabile. I partiti e la triplice sindacale non comprendevano fino in fondo la voglia di riscatto dei cittadini che chiedevano di non essere spogliati di prerogative che storicamente gli erano appartenute. Lo stesso sindaco democristiano Pietro Battaglia si era trovato in una situazione difficile; fra l’incudine della politica e il martello dei manifestanti, era stato lui stesso a guidare le prime proteste cittadine prima che la situazione degenerasse. Ma era stato tutto inutile. A Reggio, oltre alla destra parlamentare e non, si erano dati appuntamento “da sinistra” anche quelli di Lotta Continua, che speravano anche loro di poter interpretare una vera rivolta di popolo. Adriano Sofri e i suoi più stretti collaboratori erano scesi a Reggio cercando di partecipare all’evento e facendo affiggere in tutta Italia un manifesto: “Reggio capitale per uno scontro con lo Stato”. «Qui – sostenne Sofri – ci sono ottime prospettive rivoluzionarie». I protagonisti della sommossa di Reggio provenivano infatti da “culture” diverse ma unite da certo credo movimentista. Così, come ha scritto Giano Accame nel suo Una storia della Repubblica: «Sorsero barricate, ci furono morti, il governo giunse a impiegare reparti militari, le donne dei quartieri popolari impararono come gli studenti del centro-nord a confezionare bottiglie incendiarie da lanciare contro la polizia. Contribuì non poco ad eccitare gli animi il sindacalista missino Ciccio Franco coi suoi “boia chi molla!”, ma in un contesto che comprendeva esponenti democristiani e gente di tutti i partiti». A capeggiare la rivolta e a proclamare lo sciopero generale a oltranza c’era infatti un “comitato d’azione” trasversale, piuttosto intransigente e guidato da Franco. I “nemici” se così vogliamo chiamarli erano i rappresentanti nazionali nati in Calabria di quella coalizione di centrosinistra che guidava il paese da una manciata di anni: il Dc Riccardo Misasi e il socialista Giacomo Mancini entrambi cosentini, e interessati più alle esigenze della loro città e molto meno alle sorti di quella Reggio che non poteva vantare rappresentanze di altrettanto peso all’interno del Parlamento. Questa era dunque la “brutta” politica che l’inedito movimentismo da destra intendeva scardinare. Così il 14 luglio 1970 dopo un comizio del sindaco Battaglia e del consigliere provinciale missino Fortunato Aloi (era stato proclamato lo sciopero generale contro l’insediamento seppur provvisorio dell’Assemblea regionale a Catanzaro), e dopo una carica della polizia inizierà la vera e propria rivolta popolare. I manifestanti occuperanno strade e ferrovie. Il primo vero scontro non sarà a Reggio ma a Villa San Giovanni il porto dal quale partono i traghetti per la Sicilia. A far degenerare il clima poi sarà la notizia che le forze dell’ordine hanno operato alcuni fermi. La destra missina invece dopo un iniziale tentennamento, cavalcherà la protesta con motivazioni più che altro politiche. E gli alti poteri come si comporteranno? I sindacati della triplice sono passati da un atteggiamento di “disimpegno” a uno di dura critica. Gli organi di stampa italiani invece sono come spiazzati, molti di loro parleranno di “azioni teppistiche” e basta; l’agenzia sovietica Tass in quel periodo parlerà invece di un’azione “fascista” tout court, nel chiaro tentativo di screditare una protesta che andava oltre le logiche degli apparati di partito. Nei giorni, tuttavia, la protesta sfiorerà punte di massima tensione: a cominciare dal deragliamento del Treno del sole, il Palermo-Torino all’altezza di Gioia Tauro con sei morti (22 luglio), con l’occupazione dell’Università di Messina, con i proclami “secessionisti” (e la Repubblica di Sbarre, che era il quartiere di Ciccio Franco), con l’assalto alla Camera del lavoro e con l’arresto di Franco e di altri dimostranti. Dopo il giro di boa del nuovo anno (12 febbraio 1971), il governo presieduto da Emilio Colombo, in emergenza soprattutto per questioni finanziarie e per la legge sul divorzio, deciderà però di correre ai ripari. I cittadini di Reggio e zone limitrofe hanno avuto il loro tempo per “sfogarsi” e le logiche della politica tornano a dettare legge. Il risultato dei provvedimenti governativi però sarà un qualcosa a metà strada fra una “saggia” mediazione e una colossale presa in giro. Alle tre città più importanti della Calabria verranno assegnate prerogative importanti, almeno sulla carta. A Catanzaro rimarrà il “pennacchio” cioè sarà ufficialmente capoluogo e sede della giunta regionale. Cosenza sarà sede universitaria, mentre Reggio avrà il contentino della sede dell’Assemblea regionale. Ma c’è di più. Il governo prometterà di costruire a Gioia Tauro un centro siderurgico e a Saline (entrambe vicino Reggio) uno stabilimento Liquichimica. Sulla carta sarà quasi un pareggio... E i veri frutti? Le proteste andranno avanti ancora per molti mesi. Il polo industriale calabrese non decollerà mai, né a Gioia Tauro ove verranno abbattuti quasi inutilmente ettari di oliveti e agrumeti, né a Saline. A distanza di quarant’anni dunque, a reggere saranno solo i ricordi delle azioni di forza guidate da Ciccio Franco. L’ex sindaco reggino Giuseppe Scopelliti nel 2006 lo definirà per il coraggio e la brillantezza mostrata sul campo un «modello per la destra di oggi».